La rosa bianca di Izmir

D’Auria Anna

12.00

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Descrizione

Aveva solo dodici anni, quando accanto al suo letto gli zii materni posero una culla vuota, senza bambole.
“Presto ti servirà, ti unirai con rito religioso ad un nostro coetaneo” – poche taglienti parole stravolgono la vita della piccola Akgül, una bambina turca costretta a diventare donna precocemente.
Una storia che si dipana tra il passato e il presente, tra l’Anatolia e l’Italia, seguendo il filo delle memorie e delle esperienze della protagonista, ormai trentenne, e consente di esplorare le dinamiche di una realtà apparentemente lontana, eppure, in verità, così vicina: il dramma delle spose bambine.

Nel suo difficile destino di crescita, di consapevolezza e cambiamento, Akgül riuscirà a trovare finalmente un equilibrio vivendo a Napoli, “la sua Partenope”, come lei ama chiamarla, e subendo il fascino della città e della sua gente, che l’ha adottata con affetto dopo le nozze.
Napoli le appare come un immenso proscenio dove con la “pazzia” si crea la vita: in breve tempo, diventerà “il suo luogo”, una seconda madre dal grembo accogliente che la salverà da se stessa e dalle sue paure, aiutandola a recuperare ciò che le è stato rubato, l’identità e la dignità.
Tuttavia, non si può costruire il domani senza affrontare il proprio passato, così il cerchio si chiude con il ritorno della giovane donna in Turchia. Un’occasione per regolare i conti in sospeso e incrociare nuovi destini di resilienza e di speranza: quelli di altre donne, le soldatesse curde, che come lei si battono per sciogliere i lacci della sudditanza.
Due mondi paralleli che si incontrano, donne di etnie differenti che scoprono di non potersi odiare, perché entrambe sono rose sbocciate tra le spine dell’egoismo, bambine dai diritti negati, una più sfortunata dell’altra, obbligate a maturare nel dolore, nella privazione e da sempre “costrette a coprirsi il tenero volto con le manine usurate dai colpi di un fato crudele’’.
“La dignità è donna”: un grido di forza anima il libro, nel tentativo di dare visibilità a chi vive confinato, suo malgrado, in un’eterna zona d’ombra, celando la propria sofferenza sotto i drappi neri della paura.

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